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Le vite degli altri.

Vivo un momento di riflessione sulle amicizie che mi sta appunto facendo pensare tanto a quelle che sono le vite degli altri.

Ho avuto modo di passare recentemente tempo con persone che considero amiche e Amiche, ma l’uso della maiuscola è stato a conti fatti l’unico dettaglio a renderle diverse. alla fine di queste ore passate insieme, ore in cui io ho dato nutrimento alla mia curiosità, per il loro mondo, i loro pianeti, perché voglio sapere tutto delle stelle che guardano la notte, dopo tutte queste ore io mi sono resa conto di non aver raccontato niente.

E questo mi ha reso tristissima.

E mi ha reso anche colpevole, perché il solo pensiero mi ha fatto sentire egoista. 

Perché io sono così, non riesco a prendere su il telefono per raccontare le mie storie, penso sempre che gli altri abbiano delle vite diverse con problemi per loro maggiori. E allora le metto in un cassetto, le chiudo lì, le riapro nelle giornate di spleen come oggi.

E mi ha fatto sentire tristissima il pensiero che poco tempo fa io sono stata infelice, anche solo per qualche giorno, e non ho avuto il coraggio di dirlo a nessuno. Perché come ho avuto invece il coraggio di dire a qualcuno, è difficile deludere le aspettative di chi pensa che tu stia bene. È molto tanto difficile per me ammettere che a volte non si sta bene, in queste vite imperfette che amiamo. 

E alla fine di queste ore con le amiche, io ero felice di averle fatte parlare. Perché io sono interessata a loro. Ma ho guardato da fuori le vite degli altri e per un attimo ho pensato “ma nessuno è curioso della mia trama?”. 

Le piccole vanità di quelli che devono sempre farsi una domanda, e farebbero prima a farla agli altri.

Però una cosa la so: ci sono due persone che mi ascoltano. Sempre. E ho la presunzione di pensare che lo faranno sempre, non per chiedermi ora di un attimo di infelicità passata, ma con la delicatezza e il sentimento che li motiva ad essere anche, probabilmente, gli unici lettori del mio blog con i quali non sono sposata.

Vi voglio bene. 

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Accanimento terapeutico.

Stasera mi sono cucinata un risotto agli asparagi, annaffiato di vino Rosè.

Il risotto lo considero uno degli alimenti che più mi coccolano in assoluto, prepararmi un risotto significa volermi proprio bene. Devo trovar tempo, ottimi ingredienti, pazienza, non troppa fame. Insomma, devo aver voglia di me.

Nonostante la premessa, questo è un post sul dolore.

Lo scorso sabato sono stata al funerale della mamma di un collega, che è anche un amico. Una chiesa buttata su una rotonda, una giornata più fredda del dovuto; la soddisfazione di vedere che quasi tutto l’ufficio c’è, che esiste anche qualcosa che va oltre il lavoro.

Vederlo scendere dalla macchina col feretro, da solo, mi ha lacerato il cuore: in questi momenti sei abituato a vedere i parenti stretti stretti quasi a tenersi su a vicenda, e invece lui di parenti non ne ha più. Perché, come discutevo tra uno spritz e uno spritz con una collega, che è anche una amica, il giorno prima, la vita si accanisce proprio come una merda contro certe persone. Porta via loro tutto l’amore, loro ne producono e lei lo strappa via, con un sadico accanimento.

Eravamo lì perché sua madre è morta (odio l’espressione “se ne è andata”. Ma dove, di grazia? ha cambiato Stato? abbiamo il coraggio di chiamare morte la morte. Dove vadano i morti, nessuno lo sa, ma ognuno ha il diritto di immaginarselo come un posto perfetto: ad esempio, mio nonno credo sia in bocciofila a giocare a briscola, con una bottiglia di Lambrusco da stappare).

E’ morta e lui si è arrabbiato, lo è ancora, perché nessuno gli aveva detto sul serio che sarebbe morta. O meglio, non subito, non ora, non ancora. E io pensavo: Ma due mesi in più, senza nessuna speranza, a chi servono? ti farà davvero meno male, se per altri due mesi la vedrai ogni giorno soffrire? Non credo nell’accanimento terapeutico.

Vado in giro con la tesserina da donatore di organi, perché mi piace pensare di andarmene regalando momenti miracolosi a qualche altro disgraziato che non ha il coraggio di sperare che un altro umano muoia.

Poi però penso a mia mamma, che ho visto uscire dalla sala operatoria un mese fa, per una cosa molto più lieve, ma tutta molle e debole su quel letto, e io ho pensato che tutto a d’un tratto non sapevo cosa fare, perché in una situazione così avrei chiesto a lei, che fare.

E penso che Lui ha ragione, quando dice che dobbiamo abituarci alla Morte, Lui che ho dovuto svegliare parlando di Morte poco tempo fa.

Ma che questo pensiero mi fa una paura fottuta, e allora ogni giorno in più sarà un giorno in più per un miracolo non credibile, ma sperabile.

Ho un accanimento terapeutico nei confronti della felicità.

 

 

 

 

 

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Nove cose da sapere (Fuck the FAQ).

Ora che è passata la bufera lavorativa, in un piovoso venerdì, io qui e la micha lì, buttata in un tragico angolo casual con felpona e camicia da notte natalizia con la renna (perché è un attimo che siamo a Natale), rifletto sul poco tempo che manca al Giorno, anzi al GIORNO, così importante da meritare tutte le maiuscole, come quando in un messaggio vuoi far capire che urli (di gioia, qui).

E allora, nove piccole cose (perché diciamolo, quelli che di cose ne scrivono dieci hanno anche un po’ stufato) senza soluzione di continuità su quello che accadrà da ora.

1 – Non sopporto che persone che si ripetono. le trovo molto poco attente. e odio ripetermi. in questo periodo in cui le domande sono spesso simili, non so mai se e cosa io abbia già raccontato. Perciò metto tre cose qui, che dico sempre, così almeno mi ricorderò di averle dette: le FAQ del matrimonio, insomma.

2 – Prima cosa: Il mio vestito sarà splendido, anche se lo zio terrorizzato da farmi fare la figura della poratcha dice che è un abito da nazista. 

E questo non significa croci celtiche, ma un vestito semplice, senza pizzi pazzi, perline, lustrini, colombe bianche, cigni intrecciati, un vestito così semplice da provocare un unico pensiero ossia: mazza come sta bene e star bene senza niente vuol proprio dire essere belli.

3- A chi mi chiede “è tutto pronto?” la risposta è sempre “sì, quasi” ma la vera risposta dovrebbe essere NO CAZZO STO MORENDO DI AGITAZIONE DA IPERPERFORMANTE. non so quando fare le cose, che magari sono pure già fatte, ma che io penso sempre possano essere fatte in un modo migliore.

4- Non c’è un tema del matrimonio, o meglio il tema è ognuno al meglio delle proprie potenzialità. Non c’è un colore del matrimonio, ecco se non venite vestite color Stabilo Boss lo apprezzo, ma del resto potete venire anche con un colore di pelle diverso per l’occasione, noi non vi giudichiamo.

5 – Seconda cosa: io ho delle scarpe brutte e povere, mio marito delle scarpe bellissime. Penso che questo come moglie sarà il primo gesto che non gli perdonerò mai del tutto. Come fidanzata, per ora mi limito a non vedere quel sacchetto Rosso Amore dentro la nostra scarpiera.

6 – Al nostro matrimonio ci si divertirà tantissimo. Questa è una presunzione della quale non mi voglio privare. So che sarete felici nel renderci felici.

7 – Dubito ci saranno foto in posa. Perché il nostro rapporto non è mai stato fermo, si è sempre mosso, vive di microassestamenti che lo rendono un terreno merviglioso e instabile, come le strade di San Francisco che ci hanno visti così giovani e innamorati.

8 – Non asfalteremo il pratino all’inglese per agevolare la vostra camminata con i tacchi, né tantomeno la mia. Sarà più una situazione gioiosamente demenziale alla Mai Dire Banzai.

9 – Terza cosa: e se piove? non pioverà. E se fa freddo? non farà freddo. Il mio vestito non prevede un di sopra, il che renderà tutto più a portata di orribili complicazioni intestinali. Ma per essere belli bisogna soffrire, cfr. anche punto 2.

10 – Chi si commuoverà di più?

A te che sei il mio presente

a te la mia mente

e come uccelli leggeri

fuggon tutti i miei pensieri

per lasciar solo posto al tuo viso

che come un sole rosso acceso

arde per me.

(L. Battisti, La Luce dell’Est)

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Lui ( o Del perché Lui non è un lui).

Ho riflettuto un po’prima di scrivere queste parole, frutto di una scommessa arrostita di sole spagnolo, perché il timore di cadere (non scadere) in un panegirico scontato (non contato) era forte.

Allora, mi sono immaginata le parole che avrei utilizzato per parlare di Lui se avessi dovuto renderlo concreto agli occhi di una persona sconosciuta.

Alla domanda, perché Lui? Forse la risposta più corretta sarebbe un sorriso. I sorrisi sono il mio nutrimento preferito, e Lui li fa fiorire con generosità sul mio viso. Sarà il responsabile principale delle mie rughe di espressione una volta vecchi, lo so già. 

Lui perché mi circonda con un manto di protezione, e io non ho paura. Posso smettere di difendermi da sola, quando c’è lui. Poi di solito mi dimentico di riattivare la protezione quando sono sola e lo faccio infuriare. Ha quelle dolci preoccupazioni che mi ricordano quando mi arrabbiavo con mio padre che continuava a volermi dar la mano per attraversare la strada ed andare in edicola.

Lui perché, se avesse avuto il privilegio di condividere un po’di vita con il nonno Ivo, si sarebbe fatto amare, di quell’amore sincero che mio nonno provava per la pasta al ragù con il burro sopra. Perché so che Lui avrebbe sempre riso all’ennesimo pranzo in cui mio nonno raccontava che, durante la guerra, per tornare a casa avevo fatto a piedi la strada per Parigi.

Lui perché il Sesso. E non scrivo altro, perché qui più che le parole rispondono le vibrazioni dei corpi.

Lui perché spesso sa più cose di me, e questo minimamente mi indispettisce, massimamente mi inorgoglisce. 

Lui per una violenta brillantezza mentale, sopraffina e complicata. 

Lui perché ha tante cose che non vanno, e che grazie al cielo non sono uguali a quelle che non vanno in me.

Lui che ha paura, ma non paura di essere migliore. 

Lui che sopporta con orgogliosa mascolinità una sconfitta al Fantacalcio.
Poi adesso basta perché se scopro tutte le mie carte d’amore qui, il 28 maggio dovrò fare un copia incolla di Coelho Gibran e Neruda.

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Distanze.

La persona che amo, e due delle persone a cui voglio più bene, si trovano sparsi per il mondo, in questi giorni.E io, per non essere da meno, scrivo da un aereo, con musica troppo alta, per non sentire nulla che non siano i pensieri.

E rifletto sulle distanze, quelle geografiche, citate qui sopra, e quelle tra caratteri di donne diverse, con cui ho avuto modo di condividere un giorno abbondante.

Di quelle ragazze, un paio mi hanno colpito positivamente: persone interessate, che per me di conseguenza diventano interessanti. Con una ho parlato di lavoro e dell’incapacità di farsi valere come professioniste, con l’altra ho parlato di lavoro e dell’incapacità di farsi capire come educatori di persone difficili. Due posizioni diverse, che passando dall’India alle nebbie emiliane mi hanno comunque appassionato. Con una ho addirittura fatto un brain storming religioso, stremate da una giornata di inconsistenze. Poi c’è lei, l’Amica per cui siamo lì, lei che alla fine di un weekend é così tremendamente e dolcemente umile da chiedersi se si merita l’amore che le diamo. Io alla fine di un weekend così avrei scritto probabilmente un post esuberante stile Una notte da leoni, e invece no, arriva lei con quella tenerezza disarmante.

Lei che si fa piccina davanti a caratteri che la sovrastano, la schiacciano, la stringono in un angolino, lei che non solo non si lamenta mai, ma non pensa nemmeno ci sia motivo di lamentarsi. 

Per lei, mangiandomi le mani, ho lanciato l’ennesimo progetto che mi divorerà il tempo condendolo con la bile che mi rende a tratti intollerante per le persone che non (mi) ascoltano.

Ma lei se lo merita, sta per avere il Giorno che sogna da 32 anni. 

E in un giorno che sicuramente avrà qualcosa di imperfetto, spero di poterle regalare qualche lacrima di soddisfazione, e la sensazione profonda e bellissima di meritarsi quella felicità.

Buona Vita Amica Mia. 

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Prenatalizio.

Sabato sono scesa per una gita di amicizie varie, per incontrare una serie di emigrate come me che a Natale si radunano tutte sotto la benevola ombra del nostro campanile bianco.
Una giornata frenetica, più che vederle ho dovuto rincorrerle, ma poi come ha detto Lui, sempre saggio, il giorno dopo sarai contenta di averlo fatto.
Ne ho vista una che si è commossa quando le ho chiesto di essere la mia testimone, e mi ha risposto, stupendomi, che per lei è un onore. Che si impegnerà a farlo al meglio. E io, che non ho dubbi sulla sua performance, sono rimasta colpita e ammaliata dalla serietà che mi ha dimostrato. Lei che sa che l’Amore è sacro, specie se combattuto.
Poi ne ho visto una, la più dolce di tutte, che si è commossa quando mi ha detto arrivederci. Anche questo mi ha colpito, vedere che a qualcuno manchi tanto, che davvero la tua presenza come amica fa la differenza. Lei avrà un Natale triste ma sorride sempre, lascia sempre posto a me per parlare. Lei non parla del Suo giorno, per farmi parlare del Nostro.
Poi ne ho vista un’altra ancora, che mi stupisce sempre meno. Una a cui ho scritto ti voglio bene e mi ha risposto grazie, che è una bella risposta, forse non quella giusta. Forse, perché io non le voglio bene perché me ne vuole lei: gliene voglio perché la rispetto.
Mi sono addormentata nella camera di una me adolescente, indugiando su tutta una vita appena alle pareti. Su armonie diverse, sulla fitta di dolore per non essere nel letto che desideravo ricoprire.

E oggi, ora, seduta su un tram pieno di luccichini, pensando alla buffa ragazza che ci fa sempre ridere, che torna con un fornetto per la fonduta come bagaglio a mano, a chi soppesa la gioia di una casa nuova, a chi non condivide il vino buono con gli amici, a chi vuole sconfiggere la morte, a chi la calpesta con un paio di trampoli.
Alla gioia di poter dire Ciao, sono io, torno da Voi.

On air: Blondie, Heart of Glass (che poco c’entra, ma è partita mentre scrivevo le ultime parole, e mi ricorda uno dei balli più felici del 2014).

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menodiecianatale.

anzi, alla Vigilia di Natale, che è sempre il mio giorno preferito.

Perchè mangi cose più buone del solito – poi da un paio d’anni mia mamma, esasperata dalle richieste più assurde, ha sventolato bandiera bianca e alla cena della Vigilia si mangia di tutto di più, abbasso le tradizioni anticarnivore. A pranzo come da tradizione dei nonni materni si “fa vigilia”, il che tradotto dalla mia famiglia di guduriosi significa un morbido brunch in cui mangi di ogni ma in quantità minime, a riprova che quello “non è un pranzo”.

Poi la Vigilia mi piace perchè è uno dei pochi momenti in cui stai in casa ma ti vesti carina, e mi piace perchè si riunisce il meglio della mia famiglia sgarruppata. mi piace perchè alla Vigilia di Natale 2015 si parlerà un sacco e concretamente di maggio 2016, ma questa è un’altra fantastica storia.

Mi piace perchè ho accanto un uomo meraviglioso che ama le cose che amo io, o meglio mi piace pensare che le amiamo insieme.

Amiamo correre a casa e rintanarci nella nostra casina, che quest’anno è ancora più Nostra ma che per quel giorno sarà un pochino più lontana. Amiamo aprire i regali ancora stropicciati nel lettone, magari quest’anno lo faremo la sera di Natale stretti in una chaise longue che è il minimo spazio garantito per la felicità.

Mi piace poi la Vigilia perchè da tradizione nonnesca – e data la falsa astinenza da cibo del pranzo – mio nonno voleva cenare alle 17. e io volevo andare a Messa alle 24. Quell’inifinito gap di tempo da quando finisci l’ultimo dolce (intorno alle 18.30) e quando cominci a buttarti sopra strati di lana per sfidare il freddo (intorno alle 23.30) era davvero difficile da riempire, e i miei genitori, per evitare di uscirne stremati dopo ore di giochi di società e carte, avevano la tradizione di farsi tanti piccoli regali. Piccoli, perchè siam sempre stati poverini; tanti, perchè il tempo passato a scartare, indovinare, stupire era un tempo felice.

Ora i nonni non ci sono più, mia mamma è stata purtroppo colpita dall’epidemia di cena precocis, si tira con fatica e brontolii fino ad un antipasto alle 19.30, ma la montagna di regalini rimane sempre. Potremmo incartarci anche un tovagliolo ed essere felici. A tal proposito, ricordo invece la nonna Gina che mi faceva una simpatica calza di Natale low cost con dentro pastina in brodo cruda avvolta con cura nel cuki, mandarini e un paio di arachidi rubate alla cesta di Natale di turno. La amavo, quella calza, rigorosamente del nonno, rigorosamente al polpaccio, rigorosamente blu.

vabbè, mi ero detta, faccio un post sulle cose felici di oggi ma poi ciao.

Intanto volevo dirvi che son qui.

Take me home tonight

Take me anywhere, I don’t care

I don’t care, I don’t care.

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Io ho quel che ho donato.

L’arco d’ingresso del Vittoriale ti saluta così.

Ma voi, cosa avete donato? Guardate ciò che avete. Io ho avuto una settimana di patimenti, con la temperatura che non era mai giusta, troppo calda o troppo fredda.
Ho avuto un sonno senza sogni e senza incubi, schiacciato da un peso opprimente che a volte era il caldo, a volte era il freddo.
Ho avuto mattine che speravo fossero notti, e notti che aspettavo diventassero mattine.

Oggi ci hanno presentato il nuovo capo in ufficio. Le rappresentanti e i colleghi più importanti gli giravano in contro facendo le fusa come i gatti, pronti a raccontargli subito che cosa non avevano, che cosa volevano fosse loro donato.
Ed ho pensato che non deve essere così, che prima di pretendere un cambiamento dagli altri bisogna cercare le chiavi del cambiamento in se stessi.
E bisogna sorridere, prima di chiedere, perché quella sarà l’unica speranza per riavere un sorriso indietro.
E solo un sorriso ci salverà, come mi ha confermato la mia amica che ieri mi ha detto lui mi fa ridere, non è facile.

Io, oggi, prima di dirgli chi ero gli ho detto: benvenuto. Ed ho sorriso.

E stasera prego che al tramonto ci sia la temperatura giusta.

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BAM!

Che suono fa un cuore rotto? Tutti ne parlano, ne scrivono, ne cantano, ma ogni volta in cui si rompe un cuore, si finisce col pensare che la volta successiva non potrà essere più rumoroso di così.
Sarà che era un po’ che nel giardino non si rompeva un cuore. Ma si sono udite stelle fracassarsi al suolo più in silenzio.
E soprattutto, si è sentito un cuore urlare, urlare contro tutto ciò che vorrebbe cambiare, e per tutto ciò che vorrebbe non cambiasse.

Ho rotto un piattino, qualche mese fa, un piattino a cui tenevo molto.
L’ho rincollato appiccicandomi ogni sera due dita diverse, con pazienza, con fiducia. Adesso é tornato intero, concio, imperfetto, ma intero. Ogni giorno lo guardo e ne vedo l’importanza che ha, non le cicatrici che lo sfregiano.

Qualcuno ha della colla per cuori?

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Enjoy the silence.

Ho sempre avuto un rapporto difficile con il silenzio: da quando ho cominciato ad occuparlo con le parole, non ho mai smesso.
Ho sempre parlato più del dovuto, non come chi parla a sproposito (non sempre), ma piuttosto come chi parla tanto, tante parole, tante frasi.
Il silenzio non è mai stato il mio rifugio, piuttosto la mia trappola.
Quando da piccola suonavo il pianoforte, avevo paura del silenzio della casa che mi inghiottiva mentre mi esercitavo, che mi si appoggiava sulle spalle facendoli rabbrividire.
Anche ora, un po’ meno piccola, appena arriva il signor silenzio cerco di riempirlo con della musica, delle voci, per non lasciarlo parlare, per non starlo a sentire.
Voglio imparare a rispettare il silenzio. È una lotta incredibilmente difficile, me lo stai insegnando Tu. Voglio tentare di enjoyil silenzio, senza scappare.

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