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La fabbrica di plastica.

Ho provato ad essere come tu mi vuoi

tanto che sai in fondo cambierei

ma son fatto troppo troppo a modo mio

prova ad esser tu quel che non sei!

(G. Grignani, La fabbrica di plastica).

Prima che marcisse del tutto, nel 1996 Grignani cantò questa canzone, a mio modesto parere una delle più belle degli anni Novanta italiani.

La ascoltavo oggi, sotto un cielo di quegli azzurri che vedi solo al mare, e mi è sembrato l’incipit giusto per questo post sui difetti, i miei difetti, che da qualche giorno mastico in bocca.

Sono una testona, veramente ostinata:  a costo di fracassarmi contro un muro, vado dritto, nonostante i cartelli, se mi ricordo che di lì c’era una strada.

Voglio sempre avere l’ultima parola, battuta, lettera, complemento, commento. Lo devo dire io. Difficile – forse impossibile – che io la dia vinta.

Sono egocentrica, nella maniera in cui applico il mio modo di pensare anche agli altri.  Se un determinato atteggiamento non infastidisce me, dò spesso per scontato che gli altri applichino a tale fatto il mio stesso livello di sensibilità.

Se litigo, parlo chiedo e indago fino allo sfinimento: non sopporto il silenzio. Devo triturare ogni parola, per riciclare un litigio e renderlo compost per i fiori.

Parlo: troppo, troppo a lungo, troppo in largo. Ho sempre l’istinto di dare più informazioni del necessario, a commentare tutto e tutti.

Non so dire no: piuttosto mi divido a pezzi, ma provo sempre a dire sì, facendomi prendere dai sensi di colpa ogni volta in cui perdo un punto di aspettativa.

E sicuramente ce ne sono tanti altri, ma adesso è pronto il risotto e scusate ma di certo tra i miei difetti non c’è cucinare risotti mediocri.

Lascio qui una canzone, che dal primo momento mi ha fatto sorridere,  e pensare a come un cinghiale descriverebbe la sua faina sfuggente e irrequieta.

 

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Il cielo su Torino. 

Faccio scorrere l’acqua fredda sulle lenti a contatto trasparenti, e una disegna un dolce arcobaleno rosa arancio nel lavandino, facendomi venire voglia di piangere.

In un giorno lungo sempre, in cui la lontananza é stata tagliente, respiro l’ultima aria di questa città e penso che vorrei recuperare tra mille email di cose da fare quella che mi parlava di una offerta sui voli, vorrei ci fermassimo un po’ a guardare immagini di posti sconosciuti parlandone come la prossima partenza, vorrei aver preso meno salato e più dolce a pranzo, vorrei non aver bevuto quel bicchiere di rosso che mi terrà sveglia tutta notte, vorrei essere su quei divani a Sant Antoni dove il tramonto sembrava esser sempre stato li, vorrei diventare amica di questa città così sfuggente e falso cortese, vorrei infilarmi le cuffiette – anzi una a te, una a me – e ascoltare questa ad alto volume.

Per tutto il tempo che ci è sempre stato negato 

che per averlo abbiamo spesso rapinato 

per le mie dita nella tua bocca per la tua saliva 

per le tue mani 

per il mio tempo che nei tuoi occhi è imprigionato 

per l’innocenza che cade sempre e solo a lato 

per i sussuri mischiati con le nostre grida 

ed i silenzi 

per il tuo amore che è in tutto ciò che gira intorno 

acquista un senso questa città e il suo movimento 

fatto di vite vissute piano sullo sfondo 

Un altro giorno un’altra ora ed un momento 

dentro l’aria sporca il tuo sorriso controvento 

il cielo su Torino sembra muoversi al tuo fianco 

tu sei come me.

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Menouno.

Venerdì scorso, stretti in vestiti troppo invernali, umidi e scomodi, ascoltavamo insieme una canzone delicata, strana se vuoi, che racchiude una delle frasi che più mi hanno colpito musicalmente:

“Ma esistiamo io e te, e la nostra ribellione alla statistica”.

Io e Lui siamo proprio una vistosa ribellione alla statistica. A quelle statistiche di coppie che giocano tutti i carichi all’inizio, e poi – come dice Lui – vivono delle cose che fanno.

Mentre correvo il mio post precedente, un A. G. raccontava di una tentazione divenuta gioco divenuta sfida divenuta peccato divenuta pentimento. E a me sembrava tanto come quando urli nelle orecchie a una persona che non ti sta ascoltando. Perché “All’inizio lui era diverso, poi ora è tutto così…

Io ho la presunzione di essere nella coppia meglio di come fossi all’inizio. Perché ci sono stati momenti, vita condivisa, litigi, insegnamenti, che mi hanno reso una Lei migliore.

Credo di non aver dato il meglio all’inizio (anzi, sono abbastanza convinta di aver dato il peggio), e – anche se fa tanto slogan di maglietta da tamarro – io credo sempre che The best is yet to come.

Penso anche che quando due persone si scoprono diverse dalle aspettative, probabilmente sono le aspettative ad essere sbagliate, non le persone.

E spero di poter dare a Lui, ogni sera, la curiosità di addormentarsi pensando a come sarà la me di domani, senza mai dover rimpiangere la me di ieri.

E tra un anno oggi io sposo Te (perché solo i calciatori parlano usando le terze persone).

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Run boy Run.

medaglia

cominciamo da questa foto.

Che testimonia l’impossibile, ossia che anche un comodino come me se vuole, può (le).

Ho costo 5 km scavalcando bambini, cani, carrozzine, clown (tutti rivali estremamente competitivi), ma soprattutto scavalcando una cosa in cui ho sempre creduto: la convinzione di non riuscire a correre.

E ho persino allungato al traguardo perchè c’era fila e da vera imbruttita ci tenevo a passare sotto quei benedetti tornelli, quelle porte del Paradiso dei corridori.

E dopo, tutta felice con un pacchetto di patatine ben stretto nei pugnetti, a vanificare ogni intento dimagrante, in quelle ore di gioia celestiale prima dell’inferno di fiumi di acido lattico, mi sono concessa una sorriso di grande soddisfazione, che si rispecchiava negli occhi di Lui, che è sempre il mio traguardo migliore.

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All the single ladies.

Oh.

Oooooh.

Dopo anni di emancipazione, dopo che mio marito mi ripete che io sarò il marito della coppia, dopo tutti i luoghi e tutti i laghi (che poi: ci dimenticheremo di Dante, ma verosimilmente ci ricorderemo sempre di Scanu), ritorno a voi amabili e amati lettori con una parentesi di puro femminilismo.

Ho ricevuto un anello con una pietra grande così grande che se fosse un neo lo togliereste , se fosse un brufolo lo odiereste.

Ma è un anello, il Mio anello, e io lo amo.

Io sono il suo Padron Frodo, lui la mia pietra filosofale. Mi illumina la mano come i fari illuminano Paola Ferrari.

Ah, e poi.

Non è che l’ho ricevuto e basta.

Facile così.

L’ho ricevuto in una locanda, su una collina, in una torretta, soli io e Lui (e Miele, perché in ogni scena epica della vita non manca mai un gatto, ci ho pure fatto una tesi una volta).

Insomma, sindacato dei fidanzati: alzate le tabelle con gli standard 2015.

Lui ha fatto di più.

E io lo sposo.

E con tutta la femmeinità di questo posto, inforco la calzamaglia e ve la canto:

 

 

 

Ps. Non dite in giro dell’anello, vivo nel terrore di essere amputata. Spero che all’amputatore serva più un arto inferiore nel caso.

Nel frattempo, mi compro dei guantini color diamante così distraggo i curiosi con la mia proverbiale sobrietà.

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menodiecianatale.

anzi, alla Vigilia di Natale, che è sempre il mio giorno preferito.

Perchè mangi cose più buone del solito – poi da un paio d’anni mia mamma, esasperata dalle richieste più assurde, ha sventolato bandiera bianca e alla cena della Vigilia si mangia di tutto di più, abbasso le tradizioni anticarnivore. A pranzo come da tradizione dei nonni materni si “fa vigilia”, il che tradotto dalla mia famiglia di guduriosi significa un morbido brunch in cui mangi di ogni ma in quantità minime, a riprova che quello “non è un pranzo”.

Poi la Vigilia mi piace perchè è uno dei pochi momenti in cui stai in casa ma ti vesti carina, e mi piace perchè si riunisce il meglio della mia famiglia sgarruppata. mi piace perchè alla Vigilia di Natale 2015 si parlerà un sacco e concretamente di maggio 2016, ma questa è un’altra fantastica storia.

Mi piace perchè ho accanto un uomo meraviglioso che ama le cose che amo io, o meglio mi piace pensare che le amiamo insieme.

Amiamo correre a casa e rintanarci nella nostra casina, che quest’anno è ancora più Nostra ma che per quel giorno sarà un pochino più lontana. Amiamo aprire i regali ancora stropicciati nel lettone, magari quest’anno lo faremo la sera di Natale stretti in una chaise longue che è il minimo spazio garantito per la felicità.

Mi piace poi la Vigilia perchè da tradizione nonnesca – e data la falsa astinenza da cibo del pranzo – mio nonno voleva cenare alle 17. e io volevo andare a Messa alle 24. Quell’inifinito gap di tempo da quando finisci l’ultimo dolce (intorno alle 18.30) e quando cominci a buttarti sopra strati di lana per sfidare il freddo (intorno alle 23.30) era davvero difficile da riempire, e i miei genitori, per evitare di uscirne stremati dopo ore di giochi di società e carte, avevano la tradizione di farsi tanti piccoli regali. Piccoli, perchè siam sempre stati poverini; tanti, perchè il tempo passato a scartare, indovinare, stupire era un tempo felice.

Ora i nonni non ci sono più, mia mamma è stata purtroppo colpita dall’epidemia di cena precocis, si tira con fatica e brontolii fino ad un antipasto alle 19.30, ma la montagna di regalini rimane sempre. Potremmo incartarci anche un tovagliolo ed essere felici. A tal proposito, ricordo invece la nonna Gina che mi faceva una simpatica calza di Natale low cost con dentro pastina in brodo cruda avvolta con cura nel cuki, mandarini e un paio di arachidi rubate alla cesta di Natale di turno. La amavo, quella calza, rigorosamente del nonno, rigorosamente al polpaccio, rigorosamente blu.

vabbè, mi ero detta, faccio un post sulle cose felici di oggi ma poi ciao.

Intanto volevo dirvi che son qui.

Take me home tonight

Take me anywhere, I don’t care

I don’t care, I don’t care.

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Corsi e ri(n)corsi.

Vi narrai del mio esordio da corridora. Ma non del perché.
Erano giorni in cui volevo correre più forte da una realtà alla quale non ero più allineata, a un ritmo discordante, come quello di certe sonate disarmoniche.
E mi piaceva l’idea di fare una cosa in più accanto a Lui, condividere una sfida, ricevere un abbraccio e un complimento alla fine della fatica. Mi piaceva il silenzio che si creava mentre correvamo, non uno di quei silenzi grevi, un silenzio leggero, azzurro chiaro: un silenzio di chi corre più veloce dei pensieri (e di chi ha i bronchi marci, anche).

Poi Lui è partito, per un viaggio un po’piu lungo di quello indicato dalla compagnia aerea, e io mi sono piantata come un vaso di catcus, ferma e impedita al sole.
Perché senza di Lui io non voglio correre, né stare ferma. Non voglio essere.
Poi ho deciso di correre una volta senza di Lui, ma per Lui: all’inizio le gambe non ne volevano sapere, non trovavo la canzone giusta, il fiato si rompeva come certi singhiozzi di quelle notti, ma dopo un po’ ci sono riuscita. Ed é stata la corsa più bella, perché in ogni progresso che facevo il carburante era la voglia di raccontarTelo, di saperTi fiero, sorridente, dentro e fuori dal cuore.

E adesso non vedo l’ora che sia dopo, per correre via di nuovo insieme. Perché quando ami qualcuno, niente ti dà più gioia di ricominciare un passo, un giorno, un viaggio, una corsa, una vita insieme.

Mi sei mancata anche quando mi divertivo, e questo è speciale.

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Io ho quel che ho donato.

L’arco d’ingresso del Vittoriale ti saluta così.

Ma voi, cosa avete donato? Guardate ciò che avete. Io ho avuto una settimana di patimenti, con la temperatura che non era mai giusta, troppo calda o troppo fredda.
Ho avuto un sonno senza sogni e senza incubi, schiacciato da un peso opprimente che a volte era il caldo, a volte era il freddo.
Ho avuto mattine che speravo fossero notti, e notti che aspettavo diventassero mattine.

Oggi ci hanno presentato il nuovo capo in ufficio. Le rappresentanti e i colleghi più importanti gli giravano in contro facendo le fusa come i gatti, pronti a raccontargli subito che cosa non avevano, che cosa volevano fosse loro donato.
Ed ho pensato che non deve essere così, che prima di pretendere un cambiamento dagli altri bisogna cercare le chiavi del cambiamento in se stessi.
E bisogna sorridere, prima di chiedere, perché quella sarà l’unica speranza per riavere un sorriso indietro.
E solo un sorriso ci salverà, come mi ha confermato la mia amica che ieri mi ha detto lui mi fa ridere, non è facile.

Io, oggi, prima di dirgli chi ero gli ho detto: benvenuto. Ed ho sorriso.

E stasera prego che al tramonto ci sia la temperatura giusta.

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Born to run.

Chissà quanti post di corridori dilettanti sono stati intitolati andando a disturbare The Boss.

Il mio titolo corretto dovrebbe essere (Not) born to run, a voler essere onesti intellettualmente. Sono l’antisportiva più entusiasta del gruppo, quella che sapeva tutti gli sport in teoria ma non era capace di eseguirne mezzo in pratica, goffa e appesantita forse proprio da troppi pensieri.

Però Lui è così bello quando corre, così grande da farci persino nascere un blog, da quei passi robusti e coraggiosi, che ho deciso di corrergli accanto un po’ anche io. Non dietro, ma accanto, perché Lui mi ha aspettato, incitato, contandomi le metà percorso e preoccupandosi appena smettevo di respirare col naso (circa al passo n. 3) e cominciavo a fare il pesciolino con la bocca.

Lui che ha il coraggio e l’amore di dirmi Sei bellissima! mentre mi comprimo in un paio di inguardabili leggings dimenandomi come le cosce della Marini in un vestito Seduzioni Diamonds, lui che si complimenta della mia prestazione dopo che la prestazione in questione è stata una passeggiata al parco con qualche sbilenco tentativo di corsa.

Beh, io ieri mi sentivo veramente un asso dello sport: stavo proprio bene.

Abbiamo bruciato circa 200 calorie in un’ora e ne abbiamo recuperate circa 1800 in un’ora al nuovo locale Anni Cinquanta.

Ed oggi, annebbiata sulla scrivania, con il collo sbilencio e la testa che ronzava, con una flebo di caffè scadente endovena, pensavo già a quanto andremo lontano, sorridevo, e secondo me con il sorriso qualche caloria l’ho pure bruciata.

 

Got I start the revolution from my bed
‘Couse you said the brains I have went to my head
Step outside ‘couse summertime’s in bloom
Stand up beside the fireplace
Take that look from off your face
‘Couse you ain’t ever gonna burn my heart out.

Oasis, Don’t look back in anger

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Playlist.

Oggi, dopo anni di pensosità e di pigrizia, ho deciso di cambiare la mia playlist dell’iphone.

Dall’ultimo furto del pc la mia sincronizzazione se n’era mestamente andata, e da tanto, troppo tempo mi trascinavo dietro canzoni che stancamente ogni mattina mandavo avanti, come se niente si accordasse più con le mie note.

Il problema è che le canzoni si attaccano a te come certe croste sulle ferite, cazzo. Se ti ostini a toglierle nel momento sbagliato, son dolori.

Ma oggi, dopo anni di pensosità e di pigrizia, ho sentito che la mia pelle era fresca, e pronta per nuove ferite, pronta per nuove carezze.

E ho cancellato anni di canzoni, per sostituirle con nuove, timide, promettenti.

 

Ci ho messo Silvestri, perché è stato uno dei concerti che Noi abbiamo più amato.

Ci ho messo i Subsonica, perché è stato uno (…) dei concerti che Noi abbiamo più ballato.

Ci ho messo Pharrell, perché sarà uno dei Nostri concerti.

Ci ho messo De André, per quanto è stato arrabbiato e innamorato della vita.

Ci ho messo Lana del Rey, per quando voglio deprimermi in (non sotto) metropolitana.

Ci ho messo Mazzy Star, per quando voglio che la musica abbia un volume più alto della vita.

Ci ho messo i Doors, i Queen, Lou Reed e i Pink Floyd, perchè quella musica non ci salverà, ma si salverà.

E poi ci ho messo questa canzone, che mi ricorda quando Noi eravamo solo noi.

Ed in questa sera in cui mi addormenterò lasciando il posto alla notte che inizia il turno, voglio farmi cullare dalla meraviglia di una lettera maiuscola.

 

 

 

 

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