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Le vite degli altri.

Vivo un momento di riflessione sulle amicizie che mi sta appunto facendo pensare tanto a quelle che sono le vite degli altri.

Ho avuto modo di passare recentemente tempo con persone che considero amiche e Amiche, ma l’uso della maiuscola è stato a conti fatti l’unico dettaglio a renderle diverse. alla fine di queste ore passate insieme, ore in cui io ho dato nutrimento alla mia curiosità, per il loro mondo, i loro pianeti, perché voglio sapere tutto delle stelle che guardano la notte, dopo tutte queste ore io mi sono resa conto di non aver raccontato niente.

E questo mi ha reso tristissima.

E mi ha reso anche colpevole, perché il solo pensiero mi ha fatto sentire egoista. 

Perché io sono così, non riesco a prendere su il telefono per raccontare le mie storie, penso sempre che gli altri abbiano delle vite diverse con problemi per loro maggiori. E allora le metto in un cassetto, le chiudo lì, le riapro nelle giornate di spleen come oggi.

E mi ha fatto sentire tristissima il pensiero che poco tempo fa io sono stata infelice, anche solo per qualche giorno, e non ho avuto il coraggio di dirlo a nessuno. Perché come ho avuto invece il coraggio di dire a qualcuno, è difficile deludere le aspettative di chi pensa che tu stia bene. È molto tanto difficile per me ammettere che a volte non si sta bene, in queste vite imperfette che amiamo. 

E alla fine di queste ore con le amiche, io ero felice di averle fatte parlare. Perché io sono interessata a loro. Ma ho guardato da fuori le vite degli altri e per un attimo ho pensato “ma nessuno è curioso della mia trama?”. 

Le piccole vanità di quelli che devono sempre farsi una domanda, e farebbero prima a farla agli altri.

Però una cosa la so: ci sono due persone che mi ascoltano. Sempre. E ho la presunzione di pensare che lo faranno sempre, non per chiedermi ora di un attimo di infelicità passata, ma con la delicatezza e il sentimento che li motiva ad essere anche, probabilmente, gli unici lettori del mio blog con i quali non sono sposata.

Vi voglio bene. 

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Se questo fosse vero amore.

(Non si parla di Amore, qui, ma di un’altra variazione dell’amore).

Da qualche tempo un’idea mi ronza nella mente: sospetto che un amore che consideravo grande non sia più tale.

È una affermazione forte, riservata a uno di quegli Amici che ha la A sempre grande, e non solo per volontà onomastica. E vorrei farla tutta d’un fiato insieme ad un’altra affermazione, ossia che questo pensiero non sposterà di una virgola il mio, di amore verso questo Amico.

Ma sai quando poi prendi l’insieme A delle parole/promesse, e l’insieme B dei fatti, li unisci come ti insegnavano a scuola e in mezzo trovi poca ciccia? Ecco, penso che queste nostre nuove forme fisiche abbiano un po’ sciupato la forma del nostro amore.

Se penso a quando speravo ci fossi, e non ci sei stato, e a quanto enormemente c’eri in un tempo diverso, mi accorgo che il prezzo di una villa di felicità lo paghi in qualche mattone non di prima scelta, in una tubatura che perde, in un dondolo che cigola un po’.

Io me lo ricordo, quel dondolo che ballava al tramonto e non cigolava mai. E mi manca, quell’ebbrezza folle di anni ormai archiviati.

È così, prima di addormentarmi, quando ci sono ancora gli ultimi rumori a coprire i pensieri che scricchiolano un po’, ti lancio questa provocazione, questa sfida come ci piaceva fare da ragazzi: ti proposi di leggermi, non penso tu lo faccia qui. Ma magari sì, magari leggerai questa lettera e lancerai lo sguardo lontano, magari ti partirà nella testa una canzone drammatica tipo “Celeste nostalgia” e ti farai un sorriso un po’mesto.

Sappi però che io ti amo uguale, poco importa se il dondolo cigola un po’. Però non ho più quella musica assordante di giovinezza che ci assordava le orecchie insieme, e allora qualche rumore in più ogni tanto lo sento.

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Bau.

Bau Max,

conoscendoti, sarai alle porte del di là a controllare chi passa perché diciamolo, fare il portinaio ti piaceva proprio un sacco.

Quando la tua sorella di anima te lo lasciava fare, per renderti più piena la vedovanza, eri come quei vecchietti che ritrovano una seconda giovinezza andando al mare, quando ti ubriacavi di coccole e complimenti, evitavi a fatica le zampate di Micio, ti beavi di saper sempre chi c’era e chi non c’era, costringendo chiunque a spendere una parola con te, su di te.

Sono passati due mesi dall’ultima volta che ci siamo visti, che buffo quando incontravi tua cugina bianca sul pianerottolo, tu le scodinzolavi e lei da antipatica diventava la solita palla di pelo. Mi hanno però raccontato di te che sei ringiovanito un sacco, peli bianchi a parte, che hai scoperto la nobile arte della caccia al cervo, che hai dimostrato in barba all’età di saper saltellare molto meglio della tua sorella di anima, che nel sofisticato ambiente british comunque ti muovevi parecchio bene.

Ho sentito dire anche che eri felice, ad aver Lei sempre tra i piedi, a trovarla in giro per le stanze, mica come quando la dovevi aspettare anche un giorno intero; era come se fosse sempre domenica, e ovviamente a te le domeniche piacevano parecchio.

Ti ha chiesto di poter andar via un paio di giorni e tu l’hai lasciata andare, non solo, l’hai pure fatta preoccupare di meno. Le hai detto vai vai, io sto bene, come quando le mamme ti dicono prendi pure la mia ultima fetta di torta, tanto a me non andava.

Bau Max, oggi parlavo con una signora bionda e riccia che ti amava tanto, ci siamo commosse e poi abbiamo riso. Però sono più i sorrisi che le lacrime, perché sei stato dannatamente fortunato, hai amato e sei stato amato.

E stasera quando sono tornata ho infornato una torta, perché domattina vorrei svegliarmi sperando sia un giorno meno doloroso di oggi, non per me, per Lei.

E vorrei che stasera si prendesse il suo tempo, e ti pensasse lì che sulla porta, su una porta di un piano un po’ più altro del loro, per il quale discutono perché con l’interrato forse è un primo forse un secondo forse chissà, e si ascoltasse questa canzone, che la mia mamma ascoltava quando perse un fratello di anima peloso, e che io ascolto sul tuo divano, circondata dai tuoi ricordi.

Good luck.

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Se tu non torni.

Ti meriteresti – e ti aspetteresti – il video del sempre bravo Miguel Bosè ad aprire questo post di denuncia.

Ma dato che, oltre che bella, sono pure brava, cambio leggermente direzione.

La tua partenza imminente per altre terre nebbiose (e no, ahimé non si parla di bassa modenese) mi provocano uno strazio che più o meno in classifica si pone dopo quel Natale in cui, alla festa dell’asilo, Babbo Natale ignorò la mia presenza e se ne andò senza darmi il regalo. Ricordo pianti strazianti e mia madre che lo rincorreva per percuoterlo.

Pensare che tu correrai il sabato mattina in Hyde Park e io in un Sempione coperto di foglie scivolose, senza aver nessuno con cui commentare – mentalmente, senza sprecare fiato – le anoressiche, quelli che corrono come se fossero inseguiti, i cani che corrono davanti ai padroni. Pensare che, all’ennesimo invito improbabile, non avrò più il tuo nome stampigliato sul carnet di ballo come Colei che é sempre all’altezza della situazione.

Pensare che finiranno i messaggi appesi sulle porte di casa, gli spacci di Vanity Fair (col cavolo che te lo spedisco li), i sabati di giudizi universali sui prodotti agricoli al mercato.

Pensare a questo e poi non pensare più a niente, perché a parte tutte le storie sulle amicizie a distanza, io ti vorrei egoisticamente a una distanza massima di due metri.

Te le sussurro solo qui, queste cose, perché davanti a te tutto quello che ti dirò è : buona fortuna. Ah no, aggiungerò : you fuckin’deserved it, bitchy bitch.

 

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Fiori d’arancio.

ci sono stati quelli di una mia Amica, una che la sera prima delle sue nozze mi ha portato a casa con i bigodini in testa, ringraziando me, perché c’ero. Lei di una bellezza tanto difficile da descrivere quanto da dimenticare, lei finalmente felice che mi chiede se è tutto sotto controllo, perché in un giorno in cui deve abbassare l’asticella della perfezione mi rende con orgoglio la sua vice. Lei che alza l’asticella di amicizie Grandi, di quelle che non prendono nemmeno in considerazione la possibilità di non esserci, come quelli che rinunciano alla colazione del venerdì notte per avere quella del sabato mattina.

Sono queste le persone a causa delle quali le persone “bravine” con le amicizie poi sembrano ai miei occhi mediocri. 

Tra le ortensie e le peonie di quel gran giorno, il colore più bello é stato il sorriso di Chi sapeva di star facendo, in quel momento e sempre, la differenza. Di chi non chiederebbe mai di essere inserito in un titolo di coda, perché lui le storie le crea, non ci si accoda. E peccato per quelli che sono state solo comparse. 

Lo senti il profumo dei fiori d’arancio? Fra poco ci sbocceranno nei cuori. 

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Distanze.

La persona che amo, e due delle persone a cui voglio più bene, si trovano sparsi per il mondo, in questi giorni.E io, per non essere da meno, scrivo da un aereo, con musica troppo alta, per non sentire nulla che non siano i pensieri.

E rifletto sulle distanze, quelle geografiche, citate qui sopra, e quelle tra caratteri di donne diverse, con cui ho avuto modo di condividere un giorno abbondante.

Di quelle ragazze, un paio mi hanno colpito positivamente: persone interessate, che per me di conseguenza diventano interessanti. Con una ho parlato di lavoro e dell’incapacità di farsi valere come professioniste, con l’altra ho parlato di lavoro e dell’incapacità di farsi capire come educatori di persone difficili. Due posizioni diverse, che passando dall’India alle nebbie emiliane mi hanno comunque appassionato. Con una ho addirittura fatto un brain storming religioso, stremate da una giornata di inconsistenze. Poi c’è lei, l’Amica per cui siamo lì, lei che alla fine di un weekend é così tremendamente e dolcemente umile da chiedersi se si merita l’amore che le diamo. Io alla fine di un weekend così avrei scritto probabilmente un post esuberante stile Una notte da leoni, e invece no, arriva lei con quella tenerezza disarmante.

Lei che si fa piccina davanti a caratteri che la sovrastano, la schiacciano, la stringono in un angolino, lei che non solo non si lamenta mai, ma non pensa nemmeno ci sia motivo di lamentarsi. 

Per lei, mangiandomi le mani, ho lanciato l’ennesimo progetto che mi divorerà il tempo condendolo con la bile che mi rende a tratti intollerante per le persone che non (mi) ascoltano.

Ma lei se lo merita, sta per avere il Giorno che sogna da 32 anni. 

E in un giorno che sicuramente avrà qualcosa di imperfetto, spero di poterle regalare qualche lacrima di soddisfazione, e la sensazione profonda e bellissima di meritarsi quella felicità.

Buona Vita Amica Mia. 

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Fragilità.

Mi hai fatto pensare a questo, mentre quasi dondolavi in quel pigiamino così grande per la te che sei ora.

Vederti dopo anni, in un posto così pulito e scostante, tu così piccina e magra, che mi racconti di come sia difficile ricominciare dopo che ti sei chiesta cosa sia davvero ciò che hai, che hai il coraggio di analisi lucide e severe, strappandomi un sorriso orgoglioso quando mi dici che solo Lui – il Mio, lui – ha fatto qualcosa, ha ascoltato la domanda che urlavi disperata nelle menti delle persone.

Le maree di quelle spiagge sarde ci hanno portato molto al largo, amica mia. Hanno costruito continenti tra di noi, ma poi arriva una piena e ci si ritrova di nuovo sedute vicine, in un tramonto dorato, sedute in mezzo ai gigli selvatici.

 

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Pictures of you.

Ho ricevuto una email che mi ha provocato un sentimento misto, lasciandomi tra l’incupito, l’indifferente e un’altra sfumatura che non so ben spiegare. Forse si spiega con quella frase che ogni tanto mi scorre in mente, ossia che la malinconia è la tristezza che ha perso peso, chissà poi se è un nobile estratto da un pezzo di alta filosofia, o un dolce estratto da una stagnola Perugina.
Nella suddetta email, una amica di una vita passata, di quelle che erano l’amica di una certa vita, mi rivoltava come un calzino in una centrifuga di sentimenti, accuse, colpe e sentimenti ancora.
Di quelle email che non vorresti mai ricevere, ma anche un po’sì.
Un po’ sì perché con questa l’amica (la chiamerò così, perché se lo è meritato, l’articolo determinativo) non c’è più dialogo vero da tanto, come dice lei parliamo solo delle disgrazie degli altri. E invece questa volta mi ha parlato, dicendomi cose che ritengo sbagliate, e con presunzione di ragione, ma ci leggo un sentimento al loro interno, e per questo invece di ignorarla ci ho riflettuto un attimo, e le ho spiegato.
Le ho spiegato che sono felice, così.
E son pure serena, pensa un po’. Fa paura scriverlo, pare quasi che ti chiami le sfighe.
Ma io son serena, con me e con il mio cuore. Che è strapieno, di tutto e anche un pochino di più.
Perché ogni volta mi stupisco del trovarci sempre un posticino per un’istantanea di gioia ulteriore.

Ti dico anche che io non capisco e non giudico – cerco di non giudicare – le felicità degli altri. Ognuno è responsabile della propria, ma ancora di più di quelle di cui si rende protagonista. E se in un ambiente non sei protagonista di nessuna felicità, né tantomeno della tua, è ora di andare.

Portati dietro qualche fotografia di ciò che ti piaceva, non buttare l’album. Ogni tanto ti darà piacere sfogliarlo. Compra un album nuovo, ed una grande libreria.

E quando sei triste, tira fuori quel collage di istantanee che invece non devi mai staccare dal Tuo cuore, tutte buffe, seppiate, piene dei sorrisi migliori.

In air, The Cure, Pictures of you.

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From zero to hero.

In questo periodo il lavoro mi sta mangiando viva.
Se fossi una vignetta, sarei uno di quei piccoli omarelli in giacca e cravatta, ventiquattr’ore alla mano, schiacciati da un orologio che li assorda di tictactictac. Un assillo noioso come quello del coccodrillo di Capitan Uncino.
Ho avuto un brutto momento, in cui mi sono dovuta scontrare con la cattiveria umana, che diventa cattiveria lavorativa. Per l’ennesima volta, la mia ingenuità attenta alla mia vita (professionale).
Ho ricevuto un monito severo ed accorato, con la severità di chi ci tiene, a chi sei, a chi sarai, ed ho deciso due cose.
Primo: ricordarsi che, se non puoi far niente per cambiare le cose, è inutile preoccuparsi.
Secondo: se dovrò uscire dal campo, non sarà una sostituzione dovuta ad una performance scadente. Voglio uscirne da marcatore. Per questo d’ora in poi entra in scena un personaggio, ed esco io.

Di questo non ne ho parlato se non con voi lettori: a chi mi ha fatto sorseggiare del vino ed vomitare della frustrazione, a chi mi chiama apposta quando sono costretta ad usare un volume più basso di voce, e soprattutto a Lui, che mi sopporta e recupera il mio cervello tenendolo per una coordina dolce dolce, come si fa con gli aquiloni, e non permettendo che il vento di burrasca lo trascini lontano.
Lui sarà il mio coach, in questa partita: Lui che per me avrà sempre le pagelle migliori.

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incontinenza mentale.

Soffro di incontinenza mentale, a tratti peggiorata da insofferenza nei confronti dei limiti autoimposti.

Mi trovo ultimamente a dover gestire uno strano fatto: una determinata cerchia di persone che singolarmente possono valere, ma in gruppo tendono ad annullarsi a vicenda. può esistere un tale assunto (o assurdo)? io dico sì.

Ho un gruppo di amiche, quelle che storicamente sono considerate “le amiche”, che continuano ossessivamente a farsi paladine dell’uscire comune. poi c’è l’uscire comune, che diventa una specie di tracciato piatto, perché ognuna ha troppo paura di essere giudicata dalle altre partecipanti al gioco per potersi sbilanciare. e allora io torno a casa e mi chiedo e quindi?.

perché il tempo è prezioso, preziosissimo.

e io ho la presunzione che il risultato dell’investire il tempo con chi scegli debba essere un quid, un qualcosa, un byte in più che ti vada a riempire piacevolmente l’hard disk.

Mi trovo ad essere aspramente vituperata per questo, una guastafeste che mina alla sopravvivenza del club delle Piccole Donne. Sarà che son sempre stata più un piccolo uomo, ma a me di piccolo pare ci sia soltanto l’ipocrisia che avevamo quando da bambini invitavamo anche le stronze compagne ai compleanni, perché anche se le odiavamo bisognava invitarle.

Solo che l’idea a trent’anni di fare lo stesso ragionamento che facevi a tredici, a me onestamente inquieta.

Io con i miei piccoli amichetti che amavo facevo meravigliosi Pisa Party, così ribattezzati in onore di un’orribile lampada pendente con le fattezze della Torre alta circa quanto noi, che diventata il faro attorno cui le nostre anime di piccoli naviganti si radunavano per ridere e mangiare finché non tornava mattina.

Ecco, avrei voglia di uno di quei momenti lì, in cui si sta tutti a ridere e mangiare, con la certezza che, anche se la lampada brillava di una luce fioca, c’erano i nostri occhi scintillanti a fare il resto.

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